Gibellina rappresenta un luogo di verifica, attraverso l’arte e l’architettura, dell’utopia. Le vicende susseguite al drammatico terremoto del gennaio 1968, che colpì la valle del Belice nella Sicilia occidentale, sono note: la tragedia col suo carico di lutti, la situazione dei sopravvissuti, il desiderio delle comunità dei paesi colpiti di ottenere una ricostruzione adeguata, il lungo percorso che la ricostruzione compie, accompagnata da polemici addentellati che riguardano il costume, la politica e l’etica. Ricostruire esprime un largo significato, che si estende anche al di là delle vicende edilizie ed urbane, dovendo procedere a “sostituire” ciò che il terremoto ha azzerato e ad “inventare” eventualmente un nuovo contesto: l’impegno sottinteso od esplicito si volge a garantire la sopravvivenza del tessuto sociale, i legami affettivi e di lavoro, le abitudini consolidate, i rapporti che una comunità possiede attraverso la storia e la civiltà. A questa visione ampia del contesto, si affianca l’idea dell’architettura che si rende parte decisiva per la riproposizione di elementi di quotidianità e di eccezionalità, il genere di commistione e di compresenza che si può riscontrare nelle città storiche e ne fornisce l’identità. Ricomporre il quadro di presenze, di vitalità perdute necessiterebbe forse di strumenti complessi, che non si possono certo attribuire alla sola coerenza architettonica ed artistica. E, tuttavia, non si può che riflettere sull’esperienza di Gibellina, “Gibellina Nuova”, sulla continuità dell’idea che lo sforzo della cultura architettonica ed artistica potesse dimostrare e rendere operanti condizioni qualitative nel vivere urbano, condizioni visibili ed esplicite di grado superiore. L’ottimismo dello spirito che identifica obiettivi alti, di grande impegno anche realizzativo, come possono dimostrare i lunghi anni in cui la ricostruzione si dipana e sviluppa, persegue l’idea di un’utopia costruibile, facendo di Gibellina un luogo dell’arte,...
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